Il calendario ebraico è un calendario lunisolare, cioè calcolato sia su base solare sia su base lunare. L’anno è composto da 12 o 13 mesi a loro volta composti da 29 o 30 giorni.
Le festività ebraiche sono definite in relazione al calendario ebraico: poiché alcune di queste sono legate strettamente alla stagione, esse devono cadere nella stagione giusta.
I nomi dei mesi del calendario ebraico derivano dalla lingua nel confronto babilonese, con il quale gli ebrei vennero in contatto nel VI secolo a.C. Originariamente la durata dei mesi non era stabilita in anticipo, ma l’inizio di ogni mese veniva fissato tramite l’osservazione diretta della Luna nuova; nel XII secolo Maimonide codificò un sistema matematico che fissa l’inizio dei mesi e la durata degli anni in base a regole di calcolo precise e immutabili.
Il calendario ebraico è un calendario cerimoniale usato anche nello Stato d’Israele per stabilire le festività. In Israele esso non è però soltanto cerimoniale, infatti i documenti pubblici ed amministrativi israeliani e le carte d’identità israeliane riportano entrambi i calendari. La legislazione civile israeliana permette l’uso indistinto di entrambi i calendari nei contratti ed in qualsiasi tipo di documentazione ed esso viene usato nella vita quotidiana dalla consistente quota di popolazione haredi israeliana al posto del calendario gregoriano.
Festività
La religione ebraica prescrive numerose festività, intese come giorni in cui si ricorda un avvenimento particolare o un particolare momento dell’anno. Il termine festività non deve far pensare che tutte queste ricorrenze siano felici: alcuni infatti sono giorni di lutto e digiuno in ricordo di momenti tragici nella vita del popolo ebraico. Le festività possono essere divise in vari gruppi a seconda della loro importanza.
La celebrazione di ROSH HA-SHANAH – IL CAPODANNO EBRAICO – è contraddistinta dal suono dello shofar, il corno di montone. La ricorrenza, che cade il primo del mese di Tishrì, commemora sia la creazione del mondo, sia il giorno in cui viene emesso il giudizio su ogni creatura. Si pensa che essa rappresenti per Dio il momento opportuno per ricordarsi delle azioni degli uomini, per questo non sorprende che la festa sia preceduta e ancor più seguita da giorni improntati a un tono fortemente penitenziale. I riti culminanti di Rosh ha-Shanà avvengono in sinagoga, in cui ci si trattiene per varie ore in entrambi i giorni della festa. Per questa festa, è tradizione mangiare spicchi di mela intinti nel miele per l’augurio di un dolce anno.
I dieci giorni che seguono ROSH HA-SHANÀ sono chiamati “giorni terribili” e sono caratterizzati da tutta una lunga serie di preghiere penitenziali volte a preparare l’animo al sopraggiungere di YOM KIPPUR, o GIORNO DELL’ESPIAZIONE. Secondo la codificazione rabbinica, il Giorno di Kippur è proibito mangiare, bere, avere rapporti intimi, lavarsi, ungersi e calzare scarpe di cuoio. Il digiuno completo dal mangiare e dal bere va da tramonto a tramonto per la durata complessiva di 25 ore. La liturgia di questa solennità si snoda per ben 5 servizi sinagogali, cosicché l’ebreo passa in preghiera gran parte della giornata. La sera inizia con la preghiera per sciogliere i voti e i giuramenti (KOL NEDARIM) compiuti inconsapevolmente o in modo avventato nel corso dell’anno, ma prima di chiedere perdono a Dio, bisogna essere in pace con il prossimo, per cui è importante riparare ai torti fatti e perdonare coloro che si sono comportati male con noi. L’ultima funzione della giornata (NE’ILA) viene conclusa dal suono dello shofar. In questo momento termina il digiuno e ci si può di nuovo sedere a tavola, in un clima gioioso e riconciliato.
Appena 5 giorni dopo YOM KIPPUR incomincia la festa di SUKKOT, o FESTA DELLE CAPANNE: dura dal 15 al 22 del mese di Tishrì ed è la più gioiosa delle tre feste di pellegrinaggio dell’epoca biblica, in quanto cade nella stagione in cui sono stati deposti i raccolti ed è terminata la vendemmia. Il primo simbolo di questa festa è costituito dalla capanna o sukkà, che in origine aveva un significato legato allo sfondo agricolo (si trattava del capanno provvisorio costruito dai vignaioli), ma già nella Scrittura diviene simbolo e rievocazione dei 40 anni trascorsi sotto le tende dal popolo di Israele dopo essere uscito dall’Egitto. La sukkà deve essere considerata a un tempo rifugio e dimora in cui è piacevole soggiornare. Dove il clima lo consentiva, un tempo era previsto soggiornare continuamente nella capanna; ora vi si consuma almeno il pasto della prima sera di festa e si è esortati a studiarvi, leggere, conversare. Nelle funzioni sinagogali un ruolo molto importante è riservato all’altro principale simbolo della festa: le “quattro specie”. Esse sono costituite dal lulav, cioè da un ramo di palma, da un ramo di salice e da un ramo di mirto; questi tre vegetali sono tenuti nella meno destra, mentre nella sinistra si tiene un etrog (cedro) e assieme simboleggiano la fertilità della terra alla conclusione del raccolto. Durante la preghiera, il lulav viene fatto ondeggiare in tutte la direzioni per chiedere la pioggia e per indicare l’universale dominio di Dio, e si compie un giro intorno alla sinagoga, pronunciando inni, contraddistinti dal ritornello hosha’na (“salvaci”). Due momenti evidenziano lo spirito di questa festa: il primo è costituito dalla cerimonia in cui vengono portati in processione i rotoli della Torah; il secondo è la chiusura ciclo annuale di lettura della Torah. Infatti alla proclamazione dell’ultimo capitolo del Deuteronomio, con cui termina il Pentateuco, segue subito la lettura del primo capitolo della Genesi. Il senso di questa saldatura è chiaro: il ciclo della proclamazione della parola deve essere ininterrotto, cosicché la fine va a congiungersi con l’inizio.
Shemini Atzereth e Simchath Torah concludono la festività di Sukkoth. Nel giorno di Simchat Torah (gioia della Torah), durante il servizio in sinagoga, viene letta l’ultima porzione della Torah. Nello Shabbat successivo, gli ebrei ricominciano la lettura della Torah dalla prima porzione, la prima parte del libro della Genesi, chiamata Bereshit. Il servizio è particolarmente gioioso e sono consentite, e spesso attese, simpatiche variazioni al normale procedere delle funzioni. Mentre è tradizione di tutte le correnti ebraiche ballare con i rotoli della Torah intonando canzoni legate alla festività, è usanza italiana quella di lanciare dal matroneo sui danzanti (ed in particolare ai bambini) manciate di caramelle e dolcetti vari.
È una delle tre feste del pellegrinaggio. Ricorda la liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto. Il termine ebraico Pesach significa “passaggio” e si riferisce ad una delle dieci piaghe, quando Dio passò oltre le case degli ebrei, risparmiando i loro primogeniti dalla morte che invece colpì tutti i primogeniti egiziani. La preparazione della Pasqua si concentra sull’eliminazione dalle mura domestiche delle sostanze lievitate (chamez), in ricordo della cena consumata in fretta alla vigilia della fuga dall’Egitto. Il culmine dei riti pasquali è costituito dalla celebrazione della cena, chiamata seder (ordine), che si svolge nelle prime due sere della festa. Sulla tavola, apparecchiata con le stoviglie per Pesach, vi sono tre azzime (mazzot), una zampa di agnello (zerda), in ricordo dell’antico sacrificio pasquale, un uovo sodo (betza), simbolo di lutto in ricordo della distruzione del Tempio, erbe amare (maror), per ricordare l’amarezza della schiavitù, sedano (karpas) da intingere nell’aceto o nell’acqua salata, simile alle lacrime versate, un composto di frutta (charoset), che ricorda l’argilla con cui gli schiavi ebrei fabbricavano mattoni. Il seder rappresenta il protrarsi del racconto delle proprie origini e questo ininterrotto narrare costituisce, oltre a un indubitabile processo di identità culturale, anche la diretta esecuzione del precetto biblico che prescrive di raccontare al proprio figlio l’uscita dall’Egitto. Il tutto è racchiuso nell’Haggadah (narrazione) che comprende il racconto dell’uscita dall’Egitto e le varie interpretazioni rabbiniche nei secoli successivi.
Sette settimane dopo la festa di Pèsach, il 6 del mese di Sivan del calendario ebraico si celebra per due giorni la festa di Shavu’òth, o delle Settimane, che, secondo la tradizione rabbinica, ricorda la promulgazione dei Dieci Comandamenti avvenuta sul Monte Sinài e la presentazione delle primizie al Santuario. Lo sfondo agricolo trapela nell’abitudine di addobbare con fiori e piante la sinagoga, per tutto il resto dell’anno priva di questo ornamento. Si usa trascorrere la prima notte di Shavu’òth studiando e leggendo il libro di Ruth. E’ tradizione consumare un pasto a base di latticini, in quanto il bianco del latte simboleggia il candore e la purezza della Torah; inoltre, la ghematria delle lettere che compongono la parola chalav, latte, corrisponde a 40, che sono i giorni in cui Mosè rimase sul Monte Sinài per ricevere le tavole della Legge.
È una festa che inizia il 25 di Kislev e dura otto giorni. L’avvenimento che si ricorda in questa circostanza è la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta ad opera di Giuda Maccabeo (164 a.e.v.), dopo la profanazione compiuta da Antioco IV Epifane che vi aveva fatto costruire un altare dedicandolo a Zeus Olimpo. La durata di otto giorni è spiegata dal Talmud attraverso una leggenda. Essa afferma che quando gli ebrei si ribellarono all’oppressione siro-ellenica e riconquistarono Gerusalemme sotto la guida dei fratelli Maccabei, cercarono subito l’olio puro per alimentare la menorà, trovandone però solo un’unica ampolla, sufficiente appena per un giorno; tuttavia avvenne un miracolo e quella piccola scorta d’olio bastò per otto giorni. In una lettura simbolica, i Maccabei rappresentano il piccolo nucleo rimasto attaccato alle tradizioni ebraiche in mezzo ad una società ormai corrotta che riuscì a far risplendere la luce dell’ebraismo. A questa leggenda è legato l’oggetto simbolo di questa festa: la speciale lampada a otto bracci chiamata chanukkiàh, le cui luci vengono accese progressivamente una per sera tramite lo sammas, cosicché solo all’ottavo giorno ardono nella loro totalità.
Tu Bishvat è una festività ebraica anche chiamata Capodanno degli alberi. Il nome della festività significa 15 del mese di Shevat, ovvero il giorno centrale del mese ebraico di Shevat. Il festeggiamento rappresentava una sorta di ringraziamento per la fecondità della terra nell’anno precedente e un’occasione di augurarsi un raccolto migliore per l’anno successivo. In particolare si usano mangiare i frutti che nella Torah vengono associati alla terra di Israele: uva, fichi, melograni, olive, datteri, mandorle, pistacchi, noci, agrumi. In Israele, durante la festa di Tu Bishvat si usa piantare una gran quantità di alberi. Questo gesto simbolico viene associato al desiderio del popolo di Israele di rendere nuovamente verde un paese che, in epoca biblica, era descritto come stillante latte e miele, metafora per indicare un terreno rigoglioso dove l’agricoltura poteva fiorire facilmente.
Il 14 del mese di Adar cade la festa di Purim, che rievoca la storia ambientata in Persia, contenuta nel libro biblico di Ester. Essa è incentrata sul tentato sterminio degli ebrei, tramato dal perfido Aman all’epoca del re Assuero (500 ca. a.e.v.), e sventato ad opera della regina Ester, fanciulla ebrea imprevedibilmente assurta alla dignità regale, e dal pio Mardekhai. Si assiste così ad un rovesciamento delle sorti (purim, appunto), e tutto il male progettato contro gli ebrei si ritorce contro Aman e i suoi dieci figli. La festa comincia con la lettura dalla Meghillat Ester, libro manoscritto su pergamena, riccamente illustrato (singolarità, quest’ultima, resa possibile dalla mancanza in esso del nome del Signore). La ricorrenza si celebra con pranzi e abbondanti bevute, scambi di doni ed elargizioni a poveri. Purim è una specie di carnevale ebraico, dove ci si maschera, si mettono in scena particolari spettacoli e si fanno satire. Per molto tempo la norma era che le minacce si realizzassero in tutta la loro violenza. Per questo ogni raro mutamento delle sorti, in cui un paventato pericolo era stato scongiurato, meritava di essere ricordato.
Il 17 Tammuz è giorno di digiuno: ricorda la rottura delle tavole da parte di Mosé, la breccia nelle mura di Gerusalemme fatta dai Babilonesi nel 586 a.e.v. e dai Romani nel 70 e.v. Il 9 Av è giorno di digiuno: ricorda la distruzione del primo e del secondo Tempio di Gerusalemme e altre gravi vicende della storia ebraica, come la cacciata degli ebrei dalla Spagna (1492). Le tre settimane che vanno dal 17 di Tammuz al 9 di Av sono considerate periodo di lutto e vengono chiamate Ben hametzarim, espressione che significa “tra le ristrettezze”, presa dal libro delle Lamentazioni di Geremia (1:3). Durante questo periodo, sono prescritti alcuni divieti che creano un’atmosfera di progressiva mestizia: non si celebrano matrimoni, non si indossano abiti nuovi, non si mangiano primizie, ci si astiene dal mangiare carne e dal bere vino. Sono inoltre proibite le manifestazioni di gioia, feste, ascolto di musica.